giovedì 11 giugno 2009

Viaggio in Guinea Bissau

L'ARRIVO

Gambia, fine di febbraio 2009

Al suo esordio questo viaggio mi si presenta come il doppione di un mio viaggio precedente fatto sempre in Gambia nel novembre 2008. All'arrivo all'aeroporto internazionale Yundum vedo la stessa folla e gli stessi colori, sento gli stessi odori e anche le sensazioni che provo sono le stesse che ho sperimentato pochi mesi fa. Questo viaggio sarà quindi un rifacimento inutile del precedente, una specie di sua versione apocrifa? Con questo dubbio in mente supero il controllo di dogana e di passaporto, entro nel padiglione degli arrivi, un hangar ampio, rumoroso e afoso, dove al di là di una transenna si assiepa una folla festante e vociante, che agita fazzoletti e cartelli con scritte di località, in cui si mescolano parenti dei viaggiatori, taxisti, funzionari, curiosi, bagarini e procacciatori di servizi. Afferro il mio bagaglio ed esco all'aperto sul piazzale antistante l'aeroporto. Subito mi assale il cambio climatico, con un vento caldo che mi soffia in faccia, e poi insieme al vento una sensazione di euforia fisica, di gioia pura e senza confini, a cui altro nome non so dare se non quello di felicità di essere nuovamente in Africa. Visto dall'esterno, l'aeroporto internazionale Yundum è una costruzione bizzarra in muratura dall'intonaco rosa chiaro, con un semi-rosone centrale occupato da vetrate scure e due ali laterali simili alle tettoie ricurve di un tempio tailandese. Tutto intorno c’è un grande parcheggio di automezzi e di taxi in attesa di clienti, un andirivieni di viaggiatori in partenza e in arrivo, una folla di taxisti, di procacciatori e di sfaccendati. Uno stradone asfaltato prende verso nord in direzione della capitale Banjul e un altro stradone polveroso in terra battuta si diparte verso sud, infilandosi in una campagna dalle mezze tinte e priva di fascino. In Gambia ci sono taxi gialli normali e taxi verdi turistici. Dopo qualche esitazione non prendo né un taxi giallo né uno verde e scelgo un posto in terza fila di pulmino turistico, che in circa 5 ore attraverserà da Nord a sud sia il Gambia che la Casamance, risparmiandomi quindi il disagio dei mezzi di trasporto locali. Lasciato l’aeroporto di Yundum e le poche centinaia di metri di asfalto liscio, il pulmino deve subito affrontare una pista di terra battuta in pessime condizioni. Questa pista è malandata fino alla frontiera, ma a partire dalla Casamance troviamo strada asfaltata in buone condizioni fino a Ziguinchor e Cap Skirring. Al posto di frontiera con la Casamance scendiamo dal mezzo e presentiamo i documenti all'ufficiale di polizia. Il funzionario è seduto dietro uno sgangherato tavolaccio di legno, esamina brevemente il mio passaporto e poi con un tonfo che pare un ceffone vi applica il timbro di uscita dal Gambia. Risaliamo sul pulmino, percorriamo un chilometro scarso e ci arrestiamo al posto di frontiera senegalese per le formalità di entrata in Casamance. Stessa procedura, stessa timbratura sonora del passaporto, stesse gesticolazioni che ci segnalano di procedere. Ripartiamo, riprendiamo la pista che subito si converte nel nastro di asfalto liscio di una strada di fattura quasi europea. Il nostro faticoso avanzare sulla pista di terra costellata di buche diventa ora una corsa a perdifiato, dentro un paesaggio che sembra diventare sempre meno arido e sempre più animato. L'animazione però non è umana ma vegetale, rappresentata dalle migliaia di acacie dal fogliame a ombrello e dei rami bassi che sembrano gesticolazioni di braccia, dai baobab dal tronco enorme e rigonfio come pance di ippopotami. Le palme più alte che orlano l'orizzonte sono una gioia a vedersi, i banani che sventolano le loro fronde come stendardi sono la felicità di essere in Africa che mi ha preso fin dal mio arrivo e che ora non mi lascia. Attraversiamo località dai nomi sonori e coloriti come Diouloulou e Bignona, arriviamo dopo alcune ore alla periferia di Ziguinchor, capoluogo della Casamance. All'entrata della città vedo una stazione di magazzinaggio di arachidi, con grandi silos metallici che brillano al sole ormai basso sull’orizzonte ed enormi cumuli di arachidi a forma di piramidi. Il nome ‘Ziguinchor’ deriva dal portoghese ‘chegaron e choramos’ All’inizio della colonizzazione di Guinea e Casamance, i coloni portoghesi erano padroni anche di questa fetta di territorio della Casamance di cui i francesi dovevano in seguito appropriarsi. Sembra che il governo coloniale portoghese fosse così perverso da insegnare ai nativi a dire ‘chegaron=sono arrivati e choramos=ed ora piangiamo. Da Ziguinchor la strada prende verso est in direzione della costa atlantica. Passiamo le località di Oussouye, Cap Skirring e arriviamo con l'oscurità a Kabrousse, dove ho deciso di passare una notte. Scendiamo all’hotel Kabrousse beach resort, o qualcosa del genere, e qui arriva la cattiva notizia. Poche ore prima il presidente della Guinea Bissau, Nino Vieira, è stato assassinato da un gruppo di militari dissidenti. Si teme un colpo di stato, la situazione è confusa e in ogni caso la frontiera è chiusa. La situazione sembra irrimediabile, ma a causa della stanchezza mi propongo di affrontare il problema l’indomani. Quella sera, durante la cena servita al villaggio turistico, il mio malumore si stempera e diluisce nel liquido ambrato della birra senegalese ‘Gazelle’. Dopo cena l’abbeveramento continua al bar in compagnia di un giovane senegalese che fa animazione nel resort. Siamo entrambi appollaiati sugli alti sgabelli del bar, abbiamo entrambi gli avambracci appoggiati al bancone, ci diamo entrambi le arie di bevitori incalliti e disincantati dalla vita come due Humphrey Bogart, privi però del completo bianco da Casablanca. Parliamo del Senegal, dell’Italia, dell’immigrazione, della pelle bianca e di quella nera. Il giovane senegalese ha un bell’aspetto, occhi intelligenti, parla francese e italiano, e si chiama... qui però non voglio dire il suo vero nome e lo chiamerò 'Claude'. Io credo che Claude faccia strage di cuori fra le signore sole europee venute a trascorrere 15 giorni nel resort. Effettivamente sono molte le donne mature europee che cercano su queste spiagge il balsamo per le rughe delle loro anime, e lo trovano nella fattispecie nel corpo scultoreo di giovani senegalesi come Claude. All’improvviso una stanchezza gigantesca mi cala sugli occhi come un sipario, ricordo di essere partito la mattina all’alba dalla Malpensa, di avere alle spalle un volo di 6 ore e una trasferta in pulmino di quattro. Mi ritiro in camera, che poi è un bungalow a 20 metri dalla risacca. Mi corico sul letto e ascolto per pochi minuti il mare: il rumore non ha il ritmo tipico del respiro regolare delle ondate, ma è confuso, indistinto, deludente. Dopo qualche istante mi addormento, o meglio perdo i sensi, e dormo come un cieco e sordo macigno immobile fino al mattino successivo. Qui termina il primo giorno di questo mio viaggio in Guinea Bissau, destinazione che mi appare quanto mai improbabile prima di chiudere gli occhi questa prima sera, ma che si rivelerà tanto più reale nei giorni successivi.


KABROUSSE

La mattina del mio secondo giorno di viaggio tento di fare il punto della mia situazione. Mi trovo a Kabrousse, villaggio situato sull’estremo lembo meridionale della costa del Sénégal. Più a sud non proseguo se non ho un visto per la Guinea Bissau, verso ovest neppure a meno di non avere una barca perché c'è il mare. Anche le ovvietà hanno il loro peso e la piccola freddura può aiutare a tirarmi su il morale in un momento di impasse come questo. In Guinea Bissau stanno accadendo cose che hanno tutta la parvenza di un colpo di stato sanguinario, le scarse notizie che arrivano sono confuse e inquietanti, e in ogni caso la frontiera è ancora, per il secondo giorno, ben chiusa. In attesa di una soluzione che prima o poi ci sarà, mi concentro su ciò che si trova a nord da me, alla lunga costiera atlantica che da Kabrousse prosegue verso Cap Skirring e Diembering, viene poi interrotta dalla foce del fiume Casamance che si getta nell’oceano, continua a nord verso la località costiera di Kafountine al confine con il Gambia. L’oriente è lo spazio verde, umido, disseminato di canali, fiumi e lagune, risaie e savane arboree, villaggi diola e wolof, genti ospitali ed evolute, che ha nome Casamance, la Camargue del Sénégal. Mi dico che dovrei restare nel villaggio turistico, godermi gli ozi della spiaggia, la cucina di pesce, le abbeverate notturne in compagnia di Claude, la musica ‘mbalak’ del favoloso Youssou N’Dour e le gite turistiche nella ubertosa terra dei diola con le loro case a ‘impluvium’. Scaccio questa tentazione e decido di continuare il viaggio come previsto. Terminata la colazione pago il mio conto, saluto Claude il bello, raccolgo il mio micro-bagaglio, messo insieme con la scienza e l’esperienza di un viaggiatore stagionato, e dò l’addio al villaggio turistico, alla sua piscina con bar, ai suoi prati manicurati dal colore verde brillante, alle sue terrazze affacciate sull’Atlantico, ai suoi cespugli di frangipanis dagli occhiuti fiori biancorosa che odorano di chanel numero 5. Com’era diverso il viaggiare di un tempo, come doveva essere differente lo stile di un André Gide che per il suo viaggio nell’Africa Occidentale Francese aveva portato con sé un baule di libri di autori classici, tra cui le ‘Affinità elettive’ di Goethe, le ‘Favole’ di Lafontaine e la ‘Orazione funebre di Maria Teresa d’Austria’. Al momento di trovarsi in un vicolo cieco, e in Africa questa è una situazione comune, Gide si abbandonava alla lettura de ‘Misantropo' di Molière e si cortocircuitava dalle molestie esterne. Questa fortuna a me non è data. Ora cammino lungo la spiaggia verso nord in direzione di Cap Skirring, arrivo al Club Méditerranée, lascio il litorale, prendo per una scalinata che mi conduce fino alla entrata del Club. Qui mi accoglie un ‘décor’ ancora più sontuoso di quello del villaggio di Kabrousse. Io però non vedo nulla, proseguo duro e incaponito come un ariete, deciso a chiarire la questione ‘Guinea Bissau’, a sapere se la sua frontiera è ancora chiusa, a procurarmi un visto consolare e proseguire per la Guinea Bissau.

CAP SKIRRING

A tutta prima la visita del Club Méd di Cap Skirring m'induce a pensare che, per risparmiarci gli strapazzi di viaggiare in zone reali della terra, potremmo visitarne delle concentrazioni da museo come è questo villaggio turistico francese. Potrebbe la stessa idea di Borges, che riteneva una perdita di tempo l’osservazione del mondo reale, dato che la realtà è già stata descritta da lungo tempo nei libri. Il migliore dei mondi possibili per Borges è una biblioteca infinita ed eterna, in cui lo studioso è rinchiuso da tempo immemorabile e di cui ha perfino scordato la via d’uscita. La progettazione del Club Méd di Cap Skirring potrebbe quindi davvero rappresentare un'Africa in miniatura: c’è una piscina oceanica a forma di chitarra, lungo i cui bordi dei lavoranti trascinano indolenti lunghi rastrelli per pulirne il fondo; c'è un grande padiglione che imita la ‘case-palabre’, cioè la grande capanna patriarcale delle riunioni dei vecchi saggi della etnia diola, ma che qui assomiglia a un hangar da aeroporto; ci sono prati dall’erba curata dal colore verde brillante di una savana addomesticata; sul prato ci sono statue in finto ebano e in scala ridotta di schiavi africani che vengono condotti al lavoro con catene alle caviglie; poi ci sono grandi porticati che ospitano boutiques per i turisti, c’è un grande bar con un bancone alto come l’altare di una chiesa, c’è una grande sala da pranzo dalle vetrate che brillano. Al banco del ricevimento mi informano che la frontiera della Guinea Bissau è aperta, notizia splendida, ma mi sconsigliano di andare laggiù, perché chissà quali cose terribili stanno accadendo. Decido che l'indomani tornerò a Ziguinchor, il capoluogo della Casamance, per procurarmi un visto turistico presso il locale consolato guineense. Esco dal club Méd. Sono contento, il mondo ha ripreso a girare per il verso giusto e il cul-de-sac in cui mi trovavo si è all'improvviso stappato come una bottiglia di spumante. Per festeggiare andrò a passeggiare nel vicino centro abitato di Cap Skirring. L'ultima volta che ho visitato queste zone è stato più di venti anni fa ed ora tutto quanto è irriconoscibile. Il nucleo originario del villaggio di Cap è a nord della zona turistica, costituita questa da una piazzetta e da due strade che si incrociano, dove si allineano bar, ristoranti piccoli e grandi, negozietti, un paio di supermercati e una banca. Non c’è dubbio: sono diventato un turista.


RASTA

Se mai vi capita di visitare l’abitato originario di Cap Skirring, sappiate che questo è un villaggio minimo, dove bar, ristoranti, internet e locali per il tempo libero si trovano tutti nel raggio di poche centinaia di metri e dove l’orientamento è facile. Fate come me: camminate fino alla piazzetta principale, facile da trovare perché è l’unica, poi guardate verso l’edificio della banca sul marciapiede opposto. Lo slargo alla vostra sinistra è occupato dalla stazione dei pulmini e dei taxi collettivi, che sono per lo più delle Peugeot 504 familiari chiamate sept-places. La strada asfaltata a sinistra diventa ben presto una pista che conduce al quartiere popolare di Cap. Il quartiere poi non è altro che due file di case umili, con tetti in lamiera corrosa, con portichetti oscuri e miseri negozietti dove si vende di tutto. Se guardate davanti a voi oltre l’edificio della banca noterete un locale che reca sul frontale l’insegna: ‘Case bambou’. Per ora tenete a mente questo nome. Vi spiegherò più avanti di che si tratta; (tenetevi forte). Ora giratevi lentamente sul marciapiede e guardate dietro di voi. Oltre un muricciolo basso dall’intonaco pitturato di fresco ci sono cinque o sei individui che vi fissano come se non avessero mai visto un centimetro di pelle bianca in vita loro. Sono i rasta locali di Cap Skirring: chi appoggiato al muro, chi accoccolato sul pavimento; chi vestito con jeans a mezza gamba e maglietta di rete, chi ancora con calzoni bisunti di tela e gilet simbolici che lasciano scoperto il torso dalla pelle d’ebano tirata a lucido. Questi rasta sono carichi di monili e di braccialetti metallici, alcuni esibiscono una barbetta caprina ed altri indossano una cuffia di lana con i colori dell'arcobaleno. Tutti quanti vi fissano senza dire una parola, pensando a chissà cosa. Trascorrono il pomeriggio caluroso sulla soglia del loro ritrovo, immobili nel sole come creature a sangue freddo che devono scaldarsi prima di cominciare la caccia. Dopo il tramonto, quando la piazzetta di Cap verrà illuminata dalle insegne al neon rosse, gialle, arancio e lilla, l’interno del locale rasta, che è uno stanzone buio disseminato di tavoli e sedie e bottiglie vuote e scompagnate di birra Flag e Gazelle, si riempirà di volute di fumo acre, dall’aroma pungente, e in questa foschia la visione della loro filosofia sarà ancora più remota. Per quanto mi riguarda, la mia decisione è presa: domani entrerò in Guinea Bissau, costi quel che costi. Decido di fare una telefonata. Tre giorni fa dall'Italia avevo telefonato a Franco e a Fatima, un italiano e una portoghese che da molti anni vivono in Guinea Bissau. I due curano la conduzione di un albergo nella località di Varela, proprio al di là del confine con la Casamance. Franco mi aveva detto 'vieni pure, qui è tutto tranquillo, anche qui la zona è stata tutta bonificata'. Franco si riferiva alle mine antiuomo lasciate lungo il confine a seguito della lunga guerra civile di cui la Guinea Bissau è stata vittima fino in tempi recenti. Naturalmente la telefonata era stata fatta prima dell’assassinio di Nino Vieira, il presidente della Repubblica in carica. Ricordo che dopo avere terminato la chiamata, ancora con la cornetta in mano, mi aveva colpito l’umorismo involontario di quella frase: ‘hanno bonificato tutto’. Certamente Franco non avrebbe avuto molto successo come pubblicitario di un’agenzia turistica. Immaginate che per promuovere i suoi viaggi all’atollo in Mururoa in Polinesia francese l'agenzia che vuole vendervi il pacchetto vi rassicuri dicendo 'venga pure tranquillamente a fare le ferie da noi, ormai è da molto tempo che qui da noi non si fanno più esperimenti atomici e il livello di radioattività ora è trascurabile'. Telefono dunque a Franco, gli dico ‘sono a Cap Skirring, è vero che lì da te c’è la rivoluzione?’ Franco dice solo: ‘ma quale rivoluzione, hanno eliminato Vieira perché dava fastidio, queste cose qui sono routine. Vieni tranquillo, qui abbiamo tagliatelle e ravioli, tutta roba fatta in casa.’ Vorrei far notare che Franco e Fatima sono i nomi veri di queste due persone. Non c’era infatti bisogno di attribuire loro nomi fittizi come in altri casi nel corso di questo racconto di viaggio. Il villaggio di Cap Skirring con i suoi negozietti di souvenir, le sue agenzie di escursioni guidate, le sue birrerie, i suoi ristoranti con cucina di pesce e i suoi fumosi ritrovi rastafari, vide un certo sviluppo turistico negli anni 70, dopo che una compagnia francese ebbe costruito il Club Méditerranée, che si affaccia sul mare a poca distanza dall'abitato. Ciò che sorprende in questo come nella maggior parte dei centri turistici dell'Africa Occidentale, è la diffusione della cultura e della musica dei rastafari. Più che una cultura si tratta propriamente di una 'monocultura' che riesce a sostituirsi alla ricchezza straordinaria delle culture originarie d'Africa. Il reggae ha un solo ritmo, sempre quello, che cancella o deprime l'enorme varietà ritmica delle musiche africane. Nella cultura rasta il polimorfismo delle credenze africane cede il passo al monopensiero rastafari, che cerca il suo profeta in Haile Selassie d'Etiopia. L'Etiopia però è cristiana copta, ed è la nazione d'Africa forse più estranea al paganesimo panteista dei popoli bantu e sudanesi. Il rapporto tra il fenomeno rasta e il patrimonio di miti, folklore, leggende e canti africani è lo stesso che intercorre tra la monocultura del caffé o della canna da zucchero paragonata alla formidabile biodiversità della foresta pluviale africana. L'originaria cultura 'stolen from Africa' e portata di forza oltre oceano con le navi negriere è ritornata dopo duecento anni sulle coste africane rinsecchita e con poca immaginazione. L'uso della canapa indiana, da religioso, iniziatico e propiziatorio, diventa per i rastamen consuetudine e vizio. Per i rasta la canapa e la maniera di trovarla costituiscono l'argomento quasi unico delle loro conversazioni.


DULCE RIDENTEM LALAGEM AMABO

Lascio il villaggio e ritorno sulla spiaggia, per cercare un albergo per la notte ed essere pronto a ripartire l'indomani mattina presto per Ziguinchor e la Guinea Bissau. Prendo un bungalow in affitto al 'campement' 'Chez Mbalo'. La chiave della camera me la consegna madame Marie-Claire M'Balo stessa. Faccio notare che il nome dell'albergo e di quello della sua padrona sono veri, non sentendo infatti la necessità di sostituirli con nomi fittizi. Madame Marie-Claire è una donna matura, dolce, quieta, gentile. Mi chiede a che ora desidero cenare, mi chiede se gradisco pesce 'yassa', dico di sì a tutto ciò che lei s'immagina che io desideri, le dico che l'indomani partirò per la Guinea Bissau. Sto diventando preda di una strana forma di monomania del viaggiatore. Scendo in spiaggia, prendo posto su di un lettino, giro la faccia verso il sole e ascolto il mare senza pensare più a nulla. Verso sera rientro nella veranda-ristorante, Marie-Claire mi serve un piatto 'yassa', che poi è un pesce con salsa di cipolle, riso, patatine e insalata mista. Mentre termino la cena, a metà della seconda bottiglia di birra 'Gazelle', un pensiero mi rischiara la mente, proprio come un plenilunio illuminerebbe una spiaggia. Chiamo Marie-Claire e le chiedo se nel villaggio c'è un locale con musica africana. Certo, risponde la garbata padrona, qui a Cap Skirring abbiamo la Case-Bambou. Se desidera chiedo a Sophie di accompagnarla. Chi è Sophie? Vengo a saperlo dopo pochi minuti, quando Sophie arriva al mio tavolo, io sollevo lo sguardo, e l'ultimo boccone di pesce yassa con riso mi si ferma in una posizione imprecisata dell'esofago, a sud del pomo d'Adamo e a nord dello sterno. Sophie è il nome che ho inventato in questo istante per preservare nel più splendido anonimato possibile la creatura più inaspettata di questa seconda giornata del mio viaggio africano. Sophie è una giovane donna dalla pelle bruna come il cioccolato caldo quando si esagera con il latte, dalle rotondità sinuose di un'anfora minoica, dal collo delicato di una madonna nera e dal sorriso radioso di una fanciulla sorpresa a celiare con un'amica. 'Enchantée', mi dice la creatura. Riesco a risponderle solo dopo avere deglutito quello stupido boccone di cibo.


MEMORIA DI FELA KUTI

Afro-beat, makossa, soukousse, congo-rumba, high-life, juju-music, mbalax, sono tutti stili musicali dell'Africa centro-occidentale uscita dal tunnel del colonialismo e scivolata nella palude del neo-colonialismo. Di tutti i musicisti africani degli ultimi 40 anni nessuno ha superato per maestria e originalità il nigeriano Fela Anikulapo (colui che porta la morte in un sacchetto juju) Kuti, re incoronato dello high-life e orchestratore di rara bravura, senza dubbio il migliore che l'Africa occidentale abbia prodotto (era il Duke Ellington d'Africa, con la rabbia di Malcom X in più). Ad un suo concerto tenutosi in Port-Harcourt, delta del Niger, all'inizio degli anni 80, vidi Fela Kuti balzare nel cerchio di luce del riflettore del palcoscenico a torso nudo, con la fronte, le guance, le braccia e il petto marcati del colore bianco della sua etnia yoruba, il microfono stretto in una mano, l'altro braccio che si alzava e si abbassava ritmicamente per accogliere il saluto del pubblico e dare l'avvio a un'orchestra di non meno di trenta elementi tra strumentisti e coristi. Così si presentava sempre Fela al suo pubblico, nudo come madre Africa l'aveva fatto, in corpo lo stesso furore di Chinua Achebe al tempo in cui scrisse 'Il crollo', romanzo dell'eroe igbo Okonkwo che assiste alla demolizione delle tradizioni del suo Biafra sotto i colpi della cultura missionaria e coloniale. Anche Fela Kuti, come Chinua Achebe, era risoluto a rappresentare il crollo della cultura dei suoi padri e la solitudine dell'africano alienato dalla sua configurazione tribale, e per farlo intendeva servirsi di tutte le sonorità della sua orchestra. I suoi strumentisti cominciavano con un ritmato 'pianissimo', lento, ripetitivo fino all'ossessione. L'uniformità ossessiva di questi avvi dei brani di Fela Kuti era la rappresentazione della uniformità primordiale dell'Africa pre-coloniale o addirittura pre-storica, di questo singolare continente rivestito di savane e di boscaglie interminabili, monotone, sempre uguali. Poi Fela si sbarazzava del microfono, afferrava il suo sax tenore e cominciava il suo canto solitario di protesta.
Nella notte di Cap Skirring, la balera 'Case Bambou' esplode con le sue violenti luci stroboscopiche che illuminano una pista circolare, aperta nel mezzo di una confusione di sedie e tavolini su cui si accumulano bottiglie e bicchieri. I suonatori stanno su una pedana a ridosso di una parete affrescata con un'assurda scena di paesaggio alpestre nordeuropeo. Il locale si riempie in fretta di gente: ci sono gruppi di giovani donne che si guardano intorno e si scambiano commenti; di ragazzi irsuti, con arie e modi di fare imparate dalla lettura di rotocalchi alla moda o da romanzi televisivi; ci sono giovani a coppie e altri scompagnati che si guardano in giro come cercando qualcuno. Gli uomini sfoggiano camicie colorate, giubbotti e gilet scuri, cappelli di lana, occhiali scuri da sole. Ci sono ragazze che hanno stirato e lisciato i loro capelli naturalmente crespi, hanno occhi esageratamente bistrati e piedi infilati in scarpe chiuse di lacca lucida bianca, beige o giallo brillante. Sembrano bambine infagottate in abiti da adulti, che si siano per gioco truccate con il maquillage della madre e che all'ultimo momento abbiano calzato scarpe con vari numeri in più. La folla intanto si addensa sempre più sulla pista da ballo, intorno ai tavoli e davanti al bancone del bar. Ora sembra che i suonatori abbiano aumentato il volume dei loro strumenti elettrici e che la folla si sia radunata per il solo gusto di stare pigiata. Il frastuono della musica è incessante, nell'aria sta sospeso l'odore pungente del sudore africano. Mentre comincio un'altra birra Flag mentre osservo Sophie che, in piedi al margine della pista, mi mostra la sua schiena liscia e lucida inquadrata dalle bretelline del vestito bianco da barbie nera. Poi Sophie comincia a ballare, tutta sola, come casualmente, sembrerebbe non per sua decisione ma perché il ritmo mbalax le ha ricordato i ritmi ancestrali della sua etnia diola. Sophie ha capelli crespi e folti, lasciati crescere fino a formare un caschetto o meglio un cespuglio nero, il suo volto è tutto occhi e tutto bocca. Sophie ha spalle portentose e braccia lunghe che ora si dimenano, stranamente senza alcun erotismo, nel movimento giratorio della danza. Sophie inoltre ha una schiena che in basso fugge in una vertiginosa caduta di reni. All'improvviso capisco che questa danza non è altro che la riproduzione urbana di una danza cerimoniale di un qualche villaggio sperduto nel fondo di una boscaglia della Casamance. Il suggerimento mi viene dalla monotonia allucinatoria del ritmo e dalla mancanza di suggestioni erotiche dei movimenti. La danza del Case Bambou è una danza propiziatoria! Più tardi, all'improvviso, le luci che illuminano la pista si affievoliscono di colpo e la balera piomba in una semi-oscurità Da sordo e muto che ero a causa del frastuono della musica, ecco che ora divento anche cieco, ed è proprio in quell'istante che nell'oscurità un braccio dalla pelle liscia e glabra cerca a tastoni il mio, un torso bagnato di sudore s'incolla alla mia camicia e la voce da bambina di Sophie mi dice all'orecchio: 'Vuoi restare lì come una pietra tutta la notte? Vieni a ballare anche tu'.


SONNO INQUIETO

Gli avvenimenti di questa notte alla Case Bambou prendono una piega prevedibile a una certa ora, credo alle tre del mattino, quando i clienti sciamano fuori dalla 'boite' e dilagano sui marciapiedi antistanti, al bordo dei quali una fila di taxi li attende. Anche Sophie ed io saliamo a bordo di un taxi, dopo che la mia guida e 'animatrice' ha brevemente contrattato con l'autista il prezzo della corsa. La Case Bambou dista solo poche centinaia di metri dall'albergo Chez Mbalo, ma nessuno di noi due ha voglia di camminare. Rientrato nella mia stanza, il locale sembra non riuscire a stare fermo, ma rolla e beccheggia come se fosse diventata la cabina di comando, priva di timoniere, del 'Bateau Ivre' di Rimbaud. Il frastuono dell'afro-zouk di questa notte sembra continuare anche dopo che sono caduto sul mio letto come un manichino rotto e mi sono addormentato. Ma non è finita: il mio sonno è agitato e popolato da visioni, come quella della Guinea Bissau che mi appare come una meta ormai irraggiungibile, e da una sfilata di personaggi confusi che mi parlottano di non so cosa. A una certa ora mi appare perfino il fantasma di Louis-Ferdinand Céline il quale, accoccolato ai piedi del mio letto, mi guarda severo, stringe nella mano una copia del suo 'Viaggio al fondo della notte' e mi rimprovera di non averne letto che i primi 3 capitoli, quelli in cui scrive del suo viaggio all'interno del golfo di Guinea. L'Africa come ossessione e delizia. Al mattino gli eventi subiscono un'accelerata improvvisa, come sempre succede viaggiando in questi paraggi del mondo. Dopo colazione rivedo Sophie e subito questa mi mette il broncio sapendo che partirò entro mezz'ora e chissà se ci rivedremo mai. Non le dico che per motivi anagrafici tutt'al più potrei adottarla (neppure della eventuale deriva incestuosa in un simile caso di adozione le dico alcunché). In una specie di allocuzione le prospetto invece che al mio ritorno dalla Guinea Bissau potrò tornare a visitarla. Sophie non commenta e rientra nella cucina dell'albergo, senza voltarsi indietro. Convinto che non la rivredrò mai più, raccolgo il mio bagaglio e mi dirigo a piedi alla stazione dei taxi che servono il tratto Cap Skirring – Ziguinchor. Ad un autista in jellaba grigio, barbetta e cappelluccio a secchiello, probabilmente un wolof musulmano, chiedo quando parte il suo taxi. Mi risponde con un gesto vago del braccio. 'Inshallah', mi dice, intendendo qualcosa come 'non farmi troppe domande'. Mentre aspetto la partenza del taxi, per tutto il tempo un venditore ambulante di passaggio, uno spilungone in calzoni a metà gamba e maglietta rabberciata, tenta di vendermi un manufatto 'artistico': un pesce di legno lungo circa quindici centimetri, lustrato con lucido da scarpe nero per essere fatto passare per ebano e avvolto in un brandello di cellofan da supermercato, anch'esso nero. Finalmente prendo posto nel taxi, insieme a matrone grasse, dalle braccia grosse come tronchi e dai volti lustri di sudore; con bambini in grembo che mi guardano con occhi sgranati; con biberon, bottiglie di plastica, borse, pacchi e fagotti che contengono chissà cosa. L'autista ingrana la marcia e il taxi si avvia sul nastro di asfalto che conduce fuori dall'abitato di Cap Skirring, in direzione di Ziguinchor.


BIGLIETTO DI SOLA ANDATA

Dopo che il taxi collettivo ci ha depositati alla stazione bus di Ziguinchor, capoluogo della Casamance, cerco e trovo il consolato della Guinea Bissau, un edificio a due piani dai muri color rosa pastello, con una lunga veranda di tipo coloniale che lo circonda a mezza altezza, sulla quale danno le porte-finestra del piano superiore. L'intonaco del costruzione è consunto, e l'intera architettura ha un'aria di malinconica, composta decadenza. Salgo una scalinata dai gradini sconnessi che conduce agli uffici, in una spaziosa anticamera un commesso consolare mi intercetta, ascolta la mia richiesta per un visto turistico, si fa consegnare il mio passaporto, una fotografia, il contante per la pratica d'ufficio e mi intima di Attendere. Mi guardo attorno, appeso in alto al centro della parete della stanza c'è il ritratto del presidente Joao Bernardo Vieira, detto 'Nino', assassinato la mattina presto del 2 marzo 2009, cioè da poche ore. Verrò a sapere in seguito i particolari dell'attentato: alle prime luci dell'alba di quel lunedì, un commando di militari dissidenti è penetrato nella residenza presidenziale della capitale Bissau, ha scovato Nino che cercava di fuggire e lo ha abbattuto a raffiche di Kalashnikov. In seguito una fantasia popolare morbosa, o forse i giornalisti di qualche rotocalco scandalistico, faranno correre la voce secondo cui i militari avrebbero infierito con machete sul corpo del presidente già morto, facendone a pezzi il cadavere. Bazzeccole, marginalia, bagatelle. Dal suo ritratto appeso in alto sulla parete di fronte a me, l'ex presidente Vieira ora mi sta guardando dall'oltretomba e sembra si domandi che cosa mai io vada a fare nel suo paese. Dopo alcuni minuti il commesso esce dall'ufficio del console con il mio passaporto munito di un nitido timbro valido per una permanenza di 90 giorni. Noto che il numero del visto è 99/2009. Ciò significa forse che dall'inizio di gennaio ad oggi 99 persone sono entrate come turisti nel paese. Mi domando se poi ne sono usciti tutti quanti oppure se invece qualcuno c'è 'rimasto'. Con il mio passaporto stretto in pugno come un trofeo esco dal consolato, ritorno alla stazione dei taxi collettivi e prenoto un passaggio su di una Peugeot 504 a 7 posti che partirà in direzione sud verso il posto di confine con la Guinea Bissau. Quando i viaggiatori sono tutti sistemati sui loro sedili, l'autista ingrana la prima e l'automezzo parte di scatto come una bestia da soma allo schioccare della frusta. Ancora una volta la materia temporale prima si comprime e poi scatta come una molla, gli avvenimenti subiscono un'accelerazione furiosa, il mio non è più un trasferimento turistico, ma una corsa a perdifiato su di un nastro d'asfalto che penetra in una savana erbosa, nella quale sembra che in qualsiasi momento debba subentrare, con un brusco passaggio, l'arruffio e la confusione vegetale della boscaglia. Comincia così una discesa folle in uno scenario arboreo fatto di migliaia di acacie spinose, di milioni di bassi cespugli dal verde pallido e polveroso, di giganteschi baobab dal tronco panciuto e liscio e di manghi dalla enorme chioma circolare dal colore verde scuro, che se ne stanno appesi sul limite dell'orizzonte come tante mongolfiere in procinto di sollevarsi e di partire. Ed ecco che dopo la lunga corsa il taxi e il suo carico di viaggiatori stipati nella cabina a trentacinque gradi di temperatura, giunge finalmente a destinazione. Superata la dogana senegalese, il taxi giunge alla frontiera dell'antica Guinea portoghese e si arresta di fronte ad una casamatta di cemento adibita a caserma, sul cui intonaco bianco qualcuno ha tracciato a mano, con pittura blu, la scritta: 'Bem vindo na Republica de Guiné-Bissau'. Il cambio linguistico è repentino e senza pentimenti. Alla doganiera che mi esamina il passaporto mi rivolgo con un 'Boa tarde', cominciando così a sgranchirmi con la nuova lingua. Finalmente, all'inizio del mese di marzo 2009, più o meno al tempo in cui nel villaggio turistico di Kabrousse Claude 'il bello' sta conversando di controllo delle nascite con due attempate turiste svedesi; a Cap Skirring Sophie è fatta oggetto di attenzione da parte di un uomo della sua età, cioè finalmente giovane; e lassù nella fredda Europa le aziende chiudono per fallimento al ritmo di un centinaio al giorno; ecco che, grazie probabilmente a una favorevole congiunzione degli astri nel firmamento, io faccio il mio ingresso discreto nella Repubblica della Guinea Bissau.


LE OCCASIONI PERDUTE

Il tracciato che dalla zona di frontiera tra Casamance e Guinea Bissau conduce alla borgata di Sao Domingos un tempo era una pista di pastori peulh, poi i coloni portoghesi ne fecero una strada, ed ora è una via di mezzo tra una pista e una strada. I portoghesi poi ne persero la proprietà, ma i pastori peulh ora non saprebbero più che farsene, perché a loro volta hanno perduto le loro mandrie. A queste latitudini una natura invadente riprende rapidamente possesso delle zone che l’uomo le ha tolto. In Guinea Bissau questo periodo di assenza dell'uomo è durato per tutto il tempo della guerra di liberazione prima e di quella civile poi, con tutti gli intermezzi di colpi di stato, assassini di presidenti, stragi etniche ed epurazioni prima, durante e dopo. Quando gli uomini si danno convegno a sedute di sterminio, è proprio allora che la natura riprende fiato. L'asfalto dei bordi della pista è slabbrato e si perde nel terreno sabbioso; ovunque ci sono buche grandi e piccole che costringono l'automezzo a rallentamenti e rincorse continue; ai suoi lati centinaia di alberi senza nome corrono all'indietro in una fuga emozionante e rapsodica all'inizio, sonnolenta e demente via via che il tempo passa; più lente e solenni, invece, si muovono sull’orizzonte le sagome dei manghi e dei baobab, i giganti vegetali di questa steppa che sembra non avere fine. Dai finestrini con i vetri abbassati l’aria che entra è caldo come il soffio di un gatto selvatico, nell’abitacolo dell'automezzo nessuno tra i viaggiatori parla, alcuni sonnecchiano con la testa cascante di lato; un infante aggrappato alla spalla della madre avanti al mio sedile è ben sveglio e mi fissa con i grandi occhi neri e bianchi. Mi dicono che c'è ancora parecchio tempo prima di arrivare a Sao Domingos. Di quanto tempo si tratti solo Allah è al corrente, o forse qualche altra divinità o feticcio pagano. Propongo quindi di trascorrere questo tempo cercando di capire meglio la fetta d'Africa che stiamo percorrendo. Cominciamo dall’inizio, cioè dal tempo in cui i primi navigatori portoghesi decisero di spingersi al di là di Cabo Bojador, detto
anche Capo della Paura, o semplicemente Capo ‘No’, perché in quella zona della costa maghrebina onde alte come colline e rocce a pelo d'acqua taglienti come lame avevano impaurito anche i fenici. Anche il basso Atlantico aveva dunque una sua piccola e terribile colonna d'Ercole. Poi nel 1434 Gil Eanes, marinaio più spericolato degli altri, supera quello scoglio tagliente con un battello di trenta
tonnellate, un solo albero e con remi di scorta sempre pronti come se il legno fosse una galera romana. Da quel momento la navigazione portoghese lungo la costa barbara di Salé, del Sahel, giù verso sud fino al golfo di Guinea, prende l’andamento di una frana rovinosa, fatta di capitani in carriera al comando di legni sempre più grandi, di marinai male in arnese e in odore di cirrosi epatica, di avventurieri alla deriva come Ismaele che cerca la balena bianca, di casse di conterie, perline, fili di rame, moschetti e di tanti barili di acquavite. Insieme a loro giungono anche i gesuiti, il mal francese o anche la semplice influenza. Poi arriva il vero flagello. Venuti dal mare, dapprima occupano le coste e mandano all’interno i loro ricognitori; quindi sciamano nelle contrade che il geografo Al Idrissi aveva popolato del centopiedi vermiforme che parla la lingua dei serpenti, della sfinge, dell'arpia e della manticora dal torso di leone e dalla coda di scorpione. I negrieri schiavisti si stanziano in queste ed altre zone e impersonano con realismo tutti quei mostri immaginari. Finisce la tratta degli schiavi e prende avvio il periodo coloniale. Amilcar Cabral, filosofo marxista e capo della guerriglia nella Guinea Portoghese e in Cabo Verde, con l'aiuto di cinesi e cubani e dopo una lunga, dolorosa guerriglia condotta nel ‘mato’, nella boscaglia e nella macchia, porta il paese sull’orlo della liberazione ma non vede il giorno dell’indipendenza. Finisce assassinato dai suoi vecchi compagni di lotta nel 1973, proprio come Thomas Sankara in Burkina Faso nel 1985. Intanto, in Portogallo, il vecchio Salazar non vuole saperne di lasciare libere le colonie di Mozambico, Angola, Guinea Bissau e Capo Verde. Il dittatore vede in Lourenco Marques, Luanda e Bissau delle versioni tropicali di Lisbona. Poi arriva la rivoluzione dei garofani e finalmente, nel 1974, l’indipendenza della Guinea Portoghese. I guineiani smettono di combattere i coloni lusitani e cominciano a darsele fra loro. Qui un breve elenco aneddotico 1980: Luis Cabral, fratello dell’eroe nazionale Amilcar Cabral e presidente eletto della repubblica viene estromesso da un colpo di stato condotto da Nino vieira, che già conosciamo 1998: guerra civile tra sostenitori di Vieira e i militari 1999: colpo di stato, il militare Mané prende il potere e Vieira fugge in Portogallo 2000: il golpista Mané è abbattuto a colpi di mitraglietta e Kumba Iala prende il potere. Settembre 2004: altro colpo di stato; Kumba Iala è deposto dal generale Seabra. Un mese dopo Seabra viene ucciso dal generale Waie, che ne prende il posto 2005: Nino Vieira (ancora lui) torna in Guinea dopo 6 anni di esilio e vince le elezioni, ma non ha fatto i conti col generale Waie, il quale non lo ha in simpatia, cosa che da queste parti ha sapore di morte. Giorno 2 marzo 2009: durante la notte un’esplosione sbriciola la caserma delle forze armate nella capitale Bissau, il generale Waie viene estratto dalle macerie in maniera episodica, dato che il suo corpo è a brandelli. Nelle prime ore del mattino un commando di fedeli di Waie uccide Nino Vieira per rappresaglia. Due giorni dopo, al consolato guineiano di Ziguinchor, io compro per 10000 CFA un visto turistico per la Guinea Bissau, perché il cuoco italiano Franco che vive sulla spiaggia di Varela al telefono mi ha assicurato che questo, dopotutto, è un paese tranquillo. Ma torniamo al presente. Il taxi collettivo arriva a Sao Domingos e deposita i suoi passeggeri alla stazione delle autovetture. A una ventina di passi c’è il pergolato ombroso di una locanda-ristorante. Esco dal taxi rattrappito e subito devo prendere una decisione. Il villaggio di Sao Domingos si trova all’incrocio dei due assi stradali principali del paese. Una strada porta a sud-ovest verso la costa, le spiagge di Varela e l'albergo di Franco e Fatima. L'altro percorso è molto più lungo ma ha come ricompensa un soggiorno della capitale Bissau, la città delle case coloniali portoghesi dalle mura colorate a pastello rosa, ocra, giallo canarino, lilla, e verde smeraldo. Non so bene che cosa decidere. Soltanto una volta tornato in Italia apprenderò dai giornali che in quelle stesse ore, a Bissau, in un albergo del centro cittadino, soggiorna il britannico Frederick Forsyth, l’autore del 'Giorno dello sciacallo'. Senza dubbio lo scrittore cerca in questa indolente, decrepita, violenta capitale l'ispirazione per qualche sua trama corsara. La notizia della fine di Vieira era stata raccolta per prima dall’agenzia France Presse, che l’ha fatta rimbalzare in Europa precedendo le agenzie lusitane. Soltanto più tardi Forsyth verrà intervistato dalla BBC sul fatto di sangue. Le prime parole di Forsyth a commento dell'episodio sono: 'Io in questa faccenda non c’entro per nulla'. Occorre ricordare che nel 1973 Forsyth era stato implicato in un colpo di stato in Guinea Equatoriale, la ex-colonia spagnola che si trova a sud del Cameroun. Ed ora lasciatemi sognare per qualche istante. Supponiamo che a questo punto del mio viaggio io da Sao Domingos rinunci ad andare a ovest verso Varela e vada a sud verso Bissau. Arrivato in città cerco e trovo l'albergo del sig. Forsyth, suono il campanello della sua camera e mi presento: 'Signor Forsyth buongiorno, sono un suo ammiratore e ho letto tre volte il suo 'The Dogs of war', riesco a dirgli tutto d'un fiato. Il mio sogno finisce quando Forsyth mi risponde: ‘Senta, io qui ho parecchie cose da fare. Lei cos’è che vuole esattamente?’ Sono mortificato, incespico nelle mie stesse parole di scusa, rinuncio all’idea di trascorrere con il mio idolo una serata di conversazione letteraria, seduti su poltrone di vimini sotto il pergolato di una veranda coloniale, sorseggiando gin and tonic. Alla fine riesco solo a chiedergli un banale autografo.


LA TRIBU' BIANCA

Mi trovo nella cittadina di Sao Domingos, nel nord-ovest della Guinea Bissau; le spiagge di Varela sono ad occidente, la capitale Bissau si trova da qualche parte a varie ore di auto verso sud. L'albergo-ristorante dove faccio sosta è una costruzione con mura di mattoni senza intonaco, con uno spiazzo esterno e un pavimento di cemento bigio; l’ombra viene da un pergolato fitto di larghe foglie verde scuro, e da un albero d’ibisco che sembra in fiamme per via di tutti quei suoi fiori scarlatti. Lo spiazzo del pergolato è occupato da sedie e tavolini di metallo verniciato di bianco; ad uno di questi tavolini ho preso posto per bere qualcosa. All'altro capo del pergolato siede un signore corpulento, un bianco, in calzoncini corti, con cosce enormi grandi come tronchi e braccia villose grandi come cosce. La tenuta di questo signore è completa di cappelluccio da giocatore di baseball, camicia a fiori e sandali da spiaggia. Di fronte a lui siede un africano giovane, dalla pelle stranamente chiara che mi ricorda quella di Sophie (sospiro), dalle sopracciglia cascanti come due accenti circonflessi e dagli occhi tristi di cocker spaniel. Comincia una conversazione tra me e il signore in tenuta da spiaggia, il quale dice di essere diretto a Varela, di conoscere i luoghi, di essere in attesa di una persona che di lì a poco lo condurrà laggiù con la sua Landrover. Questa persona è la proprietaria dell’unico albergo di Varela ‘Fatima!’ esclamo. E' proprio così: Fatima si materializza dopo alcuni minuti nelle forme di una signora matura, con occhi chiari, capelli rossicci, lineamenti e carnagione indefinibili nei quali si indovina una miscela di genealogie imprecisate. Di Fatima mi colpisce la voce rauca, bassa, pietrosa come il greto di un torrente in secca. Per il resto Fatima è gioviale, espansiva, mi dà il benvenuto in Guinea Bissau, mi fa sentire a casa sua prima ancora di esserci arrivati e, per una strana sorta di fatalismo tipicamente africano, non sembra affatto sorpresa di trovarmi in quel luogo. Prendiamo tutti posto nella Landrover, Fatima, io, il signore dal corpaccione enorme e il ragazzo con gli occhi tristi. Un istante prima di partire il ragazzo mi rivolge la parola per la prima volta e mi chiede se per caso io non abbia dimenticato di pagare la mia bibits. La sua domanda mi dà ai nervi. Usciamo dal centro abitato di Sao Domingos e ci avviamo in direzione del sole che comincia la sua discesa verso occidente. Imbocchiamo una strada malamente asfaltata che sembra avere subito un bombardamento a tappeto, una strada che ben presto diventa una pista sabbiosa, segnata da due solchi profondi. La Landrover immette le ruote anteriori nei solchi, come se questi fossero due rotaie, e avanza lenta nel mezzo di una savana di alte erbe dal verde pallido e polveroso, cosparsa di grandi alberi dal verde più scuro, sempre più fitti e sempre più verdi.


VARELA

Del viaggio in Landrover da Sao Domingos a Varela vorrei dare un resoconto sommario. Mi sembra infatti che darne una descrizione prolissa equivarrebbe a rifare quel viaggio e riprovarne gli strapazzi. Dico solo che la pista che stiamo percorrendo è disseminata da centinaia di buche, e che la Landrover avanza a balzi, con continui arresti, rincorse e impuntamenti. Il cosiddetto ‘asse stradale’ nazionale che collega la costa con la capitale Bissau in realtà è una mulattiera che il passaggio dei frequenti autocarri ha allargato fino a farla diventare pista. Nella pianura all'intorno la boscaglia è un labirinto vegetale senza fine, dove a tratti si intravvedono minimi villaggi di capanne, dai muri di fango e dai grandi tetti di paglia, che sembrano luoghi abbandonati: sono i villaggi dei felupe, una sotto-etnia dei diola. Ormai siamo a una ventina di chilometri da Varela, dice Fatima. Altri venti chilometri di sobbalzi e di colpi di calore. Finalmente entriamo nell’abitato di Varela. Il villaggio è grande, con due file di case, capanne e baracche che si allineano ai bordi dell’unico stradone sabbioso che lo attraversa. L’albergo di Fatima è una serie di costruzioni in muratura rifinita in calce bianca, circondate da un spazio vasto piantumato di palme e cespugli in fiore, a sua volta racchiuso da un lungo muricciolo bianco. Vedo un grande padiglione con pergolato che serve come bar, un altro che fa da ristorante, una sala di ricevimento, la cucina. Disseminati all’intorno in questo vasto giardino ci sono le casette o bungalow per gli ospiti. Franco ci viene incontro: è grande, robusto, abbronzato, con capelli bianchi. In attesa dell'ora di cena passo in rassegna mentalmente gli altri compagni di viaggio che finora non si sono presentati. Una conoscenza completa di chi sono e che cosa fanno l’avrò man mano con il passare dei giorni. Il signore grosso con berrettino da baseball è un francese de territorio d’oltremare della Guyane, che si fa chiamare Capitao do Mato, è etnologo e da anni percorre l’Africa in lungo, in largo e in diagonale per studiarne le etnie. Il Capitao è inoltre titolare di una cattedra di etnologia dell’Università di Saint Laurent de Maroni della Guyane, è professore emerito i cui studi sull’Africa occidentale sono ovunque conosciuti e apprezzati, ed è conferenziere di successo in varie università e istituzioni statunitensi. Al termine di questo suo soggiorno in Guinea Bissau per rifinire certe sue ricerche in corso sui Felupe, il Capitao è atteso a Miami per un ciclo di conferenze. Il ragazzotto con gli occhi tristi che lo accompagna è Jacques, nativo di Dakar, che il professore adottò una decina di anni fa. Jacques è di etnia peulh, parola che ha corrispondenti in fula, fulani, fulbé, pulaar, termini tutti derivati da uno stesso fonema (forse anche da queste parti si ebbe una specie di rotazione consonantica P>PF>F come avvenne in Europa con l’antico tedesco). I peulh sono pastori, la loro pelle non è così scura come i bantu sudanesi, sono disseminati dai confini della Mauritania fino al Camerun, sono per lo più islamizzati. Il grande etnologo senegalese Cheik Anta Diop, di cui il Capitao è ammiratore ed epigono, sostiene che siano discesi dagli antichi egizi, anzi, come il Capitao mi ripeterà ad nauseam nel corso dei prossimi giorni, i peulh sono 'essi stessi' antichi egizi. Ma questa è un’altra storia.